cinque parole #3: Paolo Zardi

C’è chi dice che Zardi dia il meglio di sé nei racconti. Io non lo so se sono d’accordo. Sarà che l’ho conosciuto con “XXI secolo” e, di tutto quello che ha scritto, considero che il capolavoro sia “L’invenzione degli animali“. D’altro canto, “La gente non esiste” è un manuale di scrittura creativa per la prosa breve, al suo interno dei racconti che mi commuovono ogni volta che li leggo (es. “Un sogno”).
Poi c’è chi dice che preferisce le prime raccolte, “Antropometria” e “Il giorno che diventammo umani“, chi si esalta a ritrovare in “Memorie di un dittatore” chiavi di lettura per il presente, chi per l’irriverenza di “Tutto male finché dura“, chi nella

dolcezza de “La passione secondo Matteo“.
Poi ci sono gli intenditori, che vivono del piacere di scovare le perle rare, come i romanzi brevi usciti solo in ebook (“Il principe piccolo“, “La nuova bellezza” e “Eva“) o il racconto lungo in formato quadrato, “L’ultimo raccolto“, e poi gli accaniti che ritrovano nei pezzi che pubblica nel suo blog Grafemi una libertà nuova.

A prescindere dalla posizione che ognuno ha (ammesso che una persona corrisponda a una sola posizione; posso dire di aver incarnato negli anni quasi tutte quelle che ho riportato), la narrativa di Paolo Zardi ha la peculiarità dell’ampiezza stilistica e di temi, per cui, come in un test proiettivo, ogni lettore o lettrice trova delle pagine che scomodano proprio lui o lei, su un piano esistenziale, intimo, umano.

Queste sono le cinque parole che gli ho proposto, queste sono le sue risposte.

cinque parole #3: Paolo Zardi

Etica

Lo spazio della scrittura, cioè quello delle storie inventate, assomiglia a laboratorio per esperimenti dove, attraverso l’immaginazione, è possibile rilassare i vincoli della realtà per esplorarla in tutte le sue possibilità. Come diceva Roth in una vecchia intervista, la narrativa è uno strumento di conoscenza che opera attraverso l’immaginazione.
Tra i vincoli che la letteratura si può permettere di non considerare (e si spera che possa continuare a farlo per molto tempo) è quello che riguarda l’etica dell’agire umano: molti di noi cercano di conformare la propria vita a una struttura solida di principi e valori, e questo va bene, ma è il motivo per cui il valore drammaturgico delle nostre esistenze è spesso, e fortunatamente, così scarso. In un racconto o in un romanzo, quindi, non mi interessa che i protagonisti agiscano in modo eticamente corretto; sono attratto, invece, dal tipo di problemi che l’etica può porre agli esseri umani che hanno avuto la sorte di finire dentro in una mia storia; in questo senso, “La Passione secondo Matteo” e “L’invenzione degli animali”, usciti a distanza di due anni l’uno dall’altro, ma scritti in un periodo lungo quasi dieci anni, rappresentano bene il mio punto di vista sull’uso dell’etica in narrativa.

Coppia

I francesi dicono che per fare una coppia servono tre persone, e non so se questa idea preceda, o segua, i grandi romanzi francesi dell’Ottocento incentrati, per la gran parte, attorno al tradimento.
Il principale carburante degli esseri viventi, almeno qui sulla Terra, è il glucosio. Lo producono le piante, attraverso la fotosintesi clorofilliana: prendono acqua e anidride carbonica e attraverso l’energia fornita dal sole creano molecole di zucchero (l’ossigeno è un prodotto di scarto della lavorazione). La molecola di glucosio contiene, nei suoi legami, l’energia del sole; ma per estrarre quell’energia, è necessario romperli, che è quello che facciamo ogni istante della nostra vita, ottenendo calore, e quell’acqua e quell’anidride carbonica che le piante avevano messe insieme (ecco perché alitando su una lente la appanniamo; ed ecco perché è bene areare i locali dove vivono tanti esseri umani vivi).
In letteratura, la coppia è una molecola di glucosio che contiene, al suo interno, una fonte di energia; per liberarla, e trasferirla in una storia, quel legame va spezzato, perché, parafrasando il più celebre e più usato incipit di tutti i tempi, tutte le coppie felici si assomigliano, mentre le coppie infelici lo sono sempre a modo loro. Molte delle mie storie, come “Il principe piccolo”, “Il signor Bovary”, “XXI Secolo”, “C6H12O6”, parlano di questo.

Animali

A un certo punto, era diventata una questione di principio: in ogni mio libro doveva comparire un animale. Avevo iniziato con il gatto Wittgenstein, detto Witti, ne “La felicità esiste”; poi ci sono stati il cane Bepi in “La Passione secondo Matteo” e Ciacci, il gatto strabico di “Tutto male finché dura”, un po’ di pappagalli e tartarughe ne “Memorie di un dittatore”, e un particolare uccello che compare in tutti i libri – un piccolo omaggio al grande poeta John Shade. C’è pero un libro in cui gli animali sono al centro di tutto, già a partire dal titolo, ed è “L’invenzione degli animali”.
È da quando sono bambino che sospetto che la valutazione dell’intelligenza degli animali si basi su una sorta di principio antropico – un errore simile a quello che farebbe un italiano che dicesse che i finlandesi emettono versi priva di senso solo perché non ne capisce la lingua. Di recente, ho letto “Metazoa” di xxx, che è un lungo saggio sulla nascita della coscienza nella storia della vita e sul modo variegato con il quale questa si concretizza: si parla di meduse, gamberetti, polpi. È il modo migliore per capire qualcosa di realmente concreto su di noi, per liberarci dalle molte idee sbagliate che girano attorno a certe presunte peculiarità dell’homo sapiens.

Gente

In una scala che va da Platone a Hume – da una visione che considera le idee come entità dotate di vita autonoma a quella per la quale tutto nasce dall’esperienza sensoriale – pendo decisamente verso il secondo, con tutte le integrazioni fondamentali di Kant. Penso che le cose vadano più o meno così: si trovano parole per descrivere gli oggetti che tocchiamo, e poi le ripetiamo così tante volte, e in contesti così diversi, che iniziamo a credere che quella parola non parli del mondo così com’è, ma sia, piuttosto, in relazione con un’entità astratta e trascendente; a quel punto, tipicamente la prima lettera della parola diventa maiuscola. Non amo parole come Amore, Felicità, Odio, Male; e addirittura temo, perché pericolose, parole come Famiglia, Progresso, Nazione, Popolo, Dio, i Valori, e la Gente. Sono scatole nelle quali è possibile infilare qualsiasi cosa in base alle esigenze del momento e non è un caso che è proprio in nome di queste parole che sono state compiute le azioni più terrificanti della storia. Nella migliore delle ipotesi, sono semplificazioni grossolane che nascondono punti di vista specifici e che livellano le differenze verso il basso; nella peggiori, diventano alibi per ogni tipo di atrocità.
Nel mondo della letteratura, queste semplificazioni, o queste astrazioni, sono esiziali perché, come diceva il solito Roth, la letteratura si occupa del particolare, dell’individuo singolo, della sua storia unica. Questo punto di vista di Roth non è una prescrizione, una regola, un diktat, un’imposizione; banalmente, ogni volta che la letteratura cerca di occupare il posto della sociologia, della religione, della filosofia morale, della psicologia, del giornalismo perde la sua peculiare capacità di produrre significato tramite la finzione, e diventa inutile. La letteratura si occupa di storie che accadono a un gruppo di individui – non Mario Rossi, John Smith o Pinco Pallino, ma Joseph K., Tristam Shandy o la signora Emma Rouault in Bovary.

Futuro

Qualcuno (non ricordo chi, ma era uno bravo) diceva che di fatto la storia che si svolge in un racconto o in un romanzo è un semplice pretesto per realizzare il vero e unico obiettivo della scrittura, che è mettere in scena lo scorrere del tempo. Il tempo è la forza primaria di qualsiasi storia: la sua spinta incessante è il motore unico della drammaturgia. Scrivere un romanzo significa prendere il tempo futuro e, pagina dopo pagina, trasformarlo in passato, in esperienza vissuta, ricordabile e ricordata: il romanzo non si muove nello spazio fisico ma punta il suo muso verso il futuro che si nasconde nelle pagine a destra del nostro immaginario segnalibro e, creandolo, lo svela. Per chi scrive, il futuro è una benedizione e una necessità.
Le scienze cognitive hanno individuato sette emozioni di base comuni a tutti i mammiferi, la cui esistenza si fonda su particolari configurazioni neuronali: non le apprendiamo, ma sono parte della nostra fisiologia. Tra queste, c’è il piacere della ricerca, che chiunque abbia un animale in casa (e in particolare un gatto nel suo primo anno di vita) conosce bene: il piacere di esplorare per vedere “cosa c’è là”. È una curiosità che non si spegne mai. Il futuro, con la mancanza di informazioni che abbiamo su di lui, è l’equivalente della giungla nera, del cielo che vediamo sopra di noi la notte, del cuore della persona che amiamo: un irresistibile richiamo per il nostro desiderio di scoprire. Adoro il futuro; adoro quando il presente svolta improvvisamente – deraglia! – verso una direzione che nessuno aveva previsto. Come sarà il domani? Come saranno le generazioni future, di cosa parleranno, come sarà la musica del 2030, come si sentirà il primo uomo che camminerà su Marte, chi, tra i bambini che oggi vanno all’asilo, guideranno il nostro paese? Non mi dispiace invecchiare – il passato da ricordare diventa sempre più grande e denso e pieno di cose bellissime; mi dispiace, invece, che il futuro che devo ancora scoprire sia sempre più piccolo.


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